“Ascolta questa sconsolata Catherina da Forlivo che ha gran guerra nel confino senza aiuto abbandonata. Io non veggo alcun signore che a cavallo monti armato e poi mostri il suo vigore per difendere il mio stato tutto el mondo è spaventato quando senton gridar Franza e d’Italia la possanza par che sia sprofundata . Ah ! italiano impauriti io verrò io stessa armata! Io vo’ perder per battaglia e morir con honore… e prima ch’io vada spersa con i figli per il mondo e cum vergogna vada al fondo, prima volio esser straziata! ‘Scolta
questa sconsolata Catherina da Forlivo…”
[Marsilio Copagnon – ballata del XVI secolo]
Caterina Sforza, “la prima donna d’Italia”, permane radicata nella memoria popolare e resta per tutta la Romagna patrimonio comune e condiviso.
A Forlì tutte le vie nei pressi del castello, ancora oggi definito popolarmente “Rocca di Caterina Sforza”, portano nomi che si riferiscono a personaggi che le orbitarono attorno.
La tradizionale fiera di Santa Caterina, il 25 novembre di ogni anno, ha origini storiche nell’omaggio della città di Forlì alla sua signora, benefattrice del monastero di San Girolamo, che sorgeva nella zona dove si svolge ancora oggi la festa.
Fare “e’ smarì ‘d Catarnòn” è tuttora un tipico modo di dire forlivese per descrivere qualcuno che fa il finto tonto. L’espressione dialettale deriva dalla pratica resa usuale dalla Sforza di inviare in missione di spionaggio i propri uomini. Questi fingevano di essere stranieri e quindi di non comprendere bene la lingua o addirittura si facevano passare per ritardati. Il loro scopo era quello di raccogliere opinioni in merito al governo cittadino o informazioni a proposito di qualche complotto. La contessa poteva così essere informata costantemente sull’umore del popolo e prendere decisioni, intervenendo al momento e nei modi più opportuni.
Come riportavano i cronisti a lei contemporanei, Caterina Sforza superò per fama e fascino ogni altra donna del suo tempo.
Era di alta statura, dal petto prorompente, con grandi occhi e un naso importante, leggermente adunco, tipico dei romagnoli e per questo anche degli Sforza, le cui origini venivano dal condottiero Muzio Attendolo di Cotignola. Aveva capelli ondulati, solitamente raccolti dietro al capo. Non sappiamo se fosse realmente bionda e pallida di carnagione o se aspirasse piuttosto a esserlo, facendo ricorso a creme e a rimedi che preparava personalmente e che ci ha tramandato in un prezioso volume dal titolo “Experimenti de la Ecc.ma Signora Caterina da Furlj”, una raccolta di ricette di cosmesi, medicina e alchimia che lei stessa appassionatamente raccoglieva.
“È Caterina fra le più belle donne del nostro secolo elegante d’aspetto e dotata di forme mirabili”
[Giacomo Felice Foresti da Bergamo]
Caterina fu una donna che anticipò i tempi e che ancora oggi correrebbe il rischio di non essere compresa fino in fondo nella sua modernità. Era di carattere autoritario, terribile, vendicativa e spietata con traditori e nemici, rapida nel ragionamento e sincera nella parola, governante saggia e giusta, istruita ma non accademica, sempre desiderosa di apprendere e curiosa di scoprire i segreti della natura, dell’essere umano e del mondo.
Visse al di là del bene e del male e non va giudicata oggi per quelli che furono i suoi accessi d’ira o le sue vendette efferate perché di fatto si mosse sempre con astuzia, saggezza ed equilibrio.
Della vita assaporò tutto, passando dagli splendori delle corti rinascimentali, al buio della più tetra prigione papalina, dai campi di battaglia, ai giardini botanici. Seppe unire e mettere in equilibrio l’aspetto femminile creativo della maternità, con quello maschile distruttivo del combattimento e della guerra.
Caterina nacque a Milano o a Pavia tra il 1462 e il 1463, figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza e di Lucrezia Landriani, nobildonna di corte e moglie di Gian Piero Landriani. Insieme ai fratelli venne educata alla raffinata corte sforzesca, dove ebbe la possibilità di ricevere una formazione di stampo umanistico, in un ambiente frequentato da artisti e letterati di elevata apertura culturale.
Nel 1473 Caterina aveva appena dieci anni e venne data in moglie a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV. Al compimento del quattordicesimo anno, Caterina raggiunse a Roma il marito, che era al servizio dello zio pontefice. Nella Città eterna trovò un ambiente culturale particolarmente vivace e, grazie all’educazione ricevuta e ai suoi modi di fare amabili e disinvolti, partecipò attivamente alla vita aristocratica della corte papale, dove affluivano da ogni parte d’Europa musicisti, poeti, filosofi e artisti.
In breve conquistò la fiducia di Sisto IV e diventò un’autorevole intermediaria tra la corte romana e quella milanese.
Nel frattempo Girolamo, già signore di Imola dal 1473, nel 1480, dopo la morte di Pino III Ordelaffi, diventò anche signore di Forlì.
Nel 1484, morì papa Sisto IV e i Riario dovettero subire la rivolta di tutti coloro che avevano subìto ingiustizie. La residenza romana della famiglia venne depredata e messa a ferro e fuoco. Per difendere se stessa e i diritti del casato, la ventenne Caterina si asserragliò nella rocca di Castel Sant’Angelo con un manipolo di suoi fedelissimi e da qui minacciò i cardinali, imponendo le proprie condizioni di resa ed evidenziando un carattere forte ed energico.
Grazie all’azione risoluta della giovane, i Riario Sforza conservarono parte dei propri privilegi, lasciarono Roma e si trasferirono a Forlì.
In Romagna però Girolamo non era benvisto né dalla popolazione, né dai nobili e divenne in breve oggetto di continui attentati contro la sua persona. L’ultimo di questi, organizzato dai fratelli Orsi, proprietari terrieri, andò a segno la sera del 16 aprile 1488: Girolamo fu ucciso e gettato dalla finestra della Sala delle Ninfe del Palazzo comunale. Dopo l’uccisione del marito, Caterina con uno stratagemma riuscì a rinchiudersi con i suoi soldati nella rocca di Ravaldino.
All’alba del 30 aprile, i congiurati dovettero lasciare la città, temendo un intervento armato di Ludovico il Moro, zio di Caterina, che divenne così signora di Forlì, in qualità di reggente per conto del primogenito Ottaviano e degli altri cinque figli.
La presa del potere di Caterina fu accompagnata da una lunga scia di sangue e di vendette. In particolare la signora di Forlì ordinò che il grande palazzo di proprietà della famiglia Orsi venisse completamente raso al suolo. Iniziò poi a governare con grande saggezza e oculatezza, restando in una posizione difensiva e senza mai gettarsi in avventure militari che potessero mettere a rischio i diritti acquisiti dalla famiglia.
Fu in questo periodo che iniziò la storia d’amore con Giacomo Feo, personaggio di umili origini e fratello del castellano di Ravaldino. Dopo averlo sposato in segreto, per non urtare la sensibilità dello zio Ludovico, governò e gestì il potere in maniera risoluta, al punto da assumere un ruolo rilevante nel contesto della politica italiana fino alla calata in Italia del re di Francia Carlo VIII. Non a caso a Bernardino, unico figlio della coppia, verrà mutato nome in Carlo, proprio per omaggiare il sovrano transalpino e per accattivarsene le simpatie.
Giacomo Feo era un uomo ambizioso e non godeva del consenso né dei forlivesi né dei figli di Caterina che lo vedevano come un usurpatore del loro potere. Fu così che anche il secondo marito di Caterina divenne oggetto di congiure e di cospirazioni segrete che condussero alla sua morte, in un attentato ordito la sera del 27 agosto 1495.
Nei mesi che seguirono la morte di Giacomo Feo, Caterina portò a termine una serie di vendette e ritorsioni personali contro le famiglie dei suoi rivali politici, arrivando a ordinare perfino l’uccisione di donne, vecchi e bambini appartenenti alle famiglie che non le erano state fedeli.
Nel 1496 giunse alla corte di Caterina Giovanni de’ Medici, detto il Popolano, in qualità di ambasciatore della Repubblica di Firenze. Tra i due sbocciò immediatamente un grande amore che condusse la signora di Forlì al terzo matrimonio. Il 6 aprile 1498 a Ravaldino nacque Ludovico, figlio della coppia, che passerà alla storia con il nome di Giovanni dalle Bande Nere.
Dopo la nascita dell’ottavo figlio, Caterina dovette fare i conti con il peggioramento della situazione tra Venezia e Firenze, dal momento che i territori su cui governava si trovano sulle vie di passaggio dei due eserciti. Oltretutto Giovanni de’ Medici si ammalò gravemente e, quando le sue condizioni peggiorarono, venne trasferito a Santa Maria in Bagno (oggi frazione di Bagno di Romagna), nella speranza che le acque termali potessero guarirlo. Il 14 settembre del 1498, però, Giovanni muore con Caterina al suo capezzale.
L’unione tra il Medici e la Sforza sta all’origine della linea dinastica granducale dei Medici. Infatti, dal matrimonio di Giovanni dalle Bande Nere con Maria Salviati (figlia di Lucrezia de’ Medici, del ramo principale mediceo) nacque nel 1519 Cosimo I de’ Medici, primo granduca di Toscana. La linea di successione medicea durerà oltre due secoli, fino al 1743, estinguendosi con Anna Maria Luisa de’ Medici.
Dopo la morte del terzo marito, Caterina tornò a occuparsi della difesa della Signoria di Imola e Forlì. Diresse in prima persona le manovre militari, l’addestramento e l’approvvigionamento dei soldati, delle armi e dei cavalli. Un primo attacco dell’esercito di Venezia inflisse gravi perdite all’esercito di Caterina che riuscì comunque ad avere poi la meglio sui veneziani. Tra questi vi erano anche Antonio Ordelaffi e Taddeo Manfredi, discendenti delle casate che avevano governato rispettivamente Forlì e Imola prima dei Riario. Nel frattempo sul trono di Francia era salito Luigi XII, il quale vantava diritti sul Ducato di Milano e sul Regno di Napoli. Nel 1499 il sovrano transalpino entrò in Italia, occupando il Piemonte, Genova e Cremona. Prese poi Milano, abbandonata dal duca Ludovico che si rifugiò in Tirolo.
Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, si era alleato con Luigi XII per ottenere in cambio il suo appoggio nella costituzione di un regno per il figlio Cesare in Romagna. Sotto la guida del duca Valentino, l’esercito francese partì così alla conquista della Romagna. Caterina, per contrastare l’esercito del Borgia, si preparò alla difesa della sua signoria: arruolò e addestrò quanti più soldati poteva, ammassò armi, munizioni e viveri, fece rinforzare le difese della Rocca di Ravaldino. Inoltre fece partire i figli alla volta di Firenze perché fossero al sicuro.
Una ad una le città della Romagna si arresero a Cesare Borgia. Dopo aver preso possesso di Forlì, il Valentino mise sotto assedio Ravaldino. Tra la fine del 1499 e l’inizio del 1500, i cannoneggiamenti continuarono per molti giorni e molte notti, fino a che, il 12 gennaio i francesi riuscirono a penetrare nella fortezza, uccidendo gran parte degli occupanti. Caterina combatté strenuamente fino a quando dovette arrendersi e venne fatta prigioniera.
«Anche dopo la sconfitta, tuttavia, il mito di Caterina Sforza, anziché incrinarsi, si andò espandendo in una serie di racconti e canzoni popolari che nutrirono per secoli il mito della virago di Forlì. (…) La gente del popolo diceva: “Quando in Italia crederono e’ Franzesi havere a che fare con uomini, trovarono donne, quando ebbero a che fare con donne, trovarono huomini”. Un’affermazione che, oltre a rendere merito a Caterina, riconosce l’alta statura morale e combattente delle altre grandi donne protagoniste del Rinascimento italiano. Persino i soldati francesi vollero onorare la contessa chiamando la loro migliore colubrina col soprannome di Madame de Fourly. I soldati italiani al bivacco cantavano invece con voce sommessa il Lamento di Caterina Sforza, composto da un certo Marsilio Compagnon. In questo canto gli italiani, uniti intorno alla figura della contessa, venivano chiamati al riscatto e a combattere insieme per scacciare l’invasore francese. In definitiva, il 12 gennaio 1500, la caduta di Ravaldino segnò la fine del potere terreno della signora di Forlì, ma al tempo stesso l’inizio della sua leggenda immortale».
Marco Viroli, tratto da “Caterina Sforza, leonessa di Romagna” (Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008)
Cesare Borgia condusse a Roma la contessa Riario Sforza, dove venne incarcerata. Restò imprigionata a Castel Sant’Angelo fino al 30 giugno 1501, quando venne liberata, grazie all’intervento del generale francese Yves d’Allègre, solo dopo aver firmato un documento con cui rinunciava definitivamente alla signoria di Imola e Forlì. Raggiunse per mare Firenze, dove si ricongiunse con i suoi figli.
Trascorse gli ultimi anni di vita nella villa medicea di Castello e nelle altre residenze di proprietà della famiglia del marito Giovanni. Morì a Firenze, il 28 maggio 1509, all’età di quarantasei anni: aveva una pelle di velluto e tutti i capelli bianchi.
Il suo corpo fu tumulato nel monastero delle Murate a Firenze, davanti all’altare maggiore. Il nipote Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, fece successivamente apporre una lapide sul suo sepolcro. Tuttavia oggi della tomba e dei resti mortali di Caterina non resta traccia.