Alla fine del XV secolo, Forlì contava circa dodicimila abitanti, un numero che può essere valutato medio-alto se si considera che Roma ne aveva circa cinquantamila. La città era priva di tracce delle sue origini romane e aveva perso anche la connotazione medievale per le ripetute distruzioni subite a causa di guerre e incendi. La ricostruzione era stata avviata nel XIV secolo dal cardinale legato Egidio Albornoz – che aveva conquistato la città per conto del papa – e proseguita nel XV secolo da Cecco III Ordelaffi e da suo fratello Pino III.
Alla fine del Quattrocento, antico, moderno, rustico e cittadino si mischiavano gradevolmente nell’architettura di una città che cercava di adeguarsi ai nuovi stilemi rinascimentali. Nel centro sorgevano gli eleganti palazzi del patriziato, costruiti in mattoni e abbelliti da ornamenti in pietra. Nella parte ovest, tra il ponte dei Brighieri (poi ponte dei Morattini) e Porta Schiavonia, si estendeva la zona più umile, in cui vivevano braccianti agricoli e lavoratori a cottimo. All’interno delle mura, a ridosso del centro abitato, si trovava la striscia verde degli orti. Tra Ravaldino e Schiavonia scorrevano i fiumi Montone e Rabbi. Una parte delle loro acque era stata canalizzata e indirizzata verso la città dove serviva i fossati della rocca e provvedeva a dare l’energia necessaria a mettere in moto le pale dei mulini, le macine e le macchine tessili. Tra le opere di urbanizzazione dell’età medioevale va ricordato il Canale di Ravaldino, una complessa opera di ingegneria per il controllo idrografico del Rabbi, che già da qualche secolo aveva convertito il fiume in collettore e motore degli opifici urbani. Un tempo emerso per gran parte del suo percorso cittadino, ora è possibile vederne un unico tratto a cielo aperto in città, in via Canale di Ravaldino.
Infine, più a est, qualche chilometro fuori dalle mura, in direzione di Cesena, scorreva un terzo fiume, il Ronco o Bidente.
Forlì si presentava a figura ovale, cinta di mura, con quattro porte da cui muovevano le quattro strade maestre. In direzione di Ravenna, le mura si aprivano a Porta San Pietro, mentre verso le colline si trovava Porta Ravaldino. La via Emilia attraversava la città da est, dove in direzione di Cesena si trovava Porta Cotogni, a ovest, invece Porta Schiavonia indicava la via verso Faenza.
Le quattro vie principali intersecandosi formavano una croce con al centro la Piazza Grande, antistante l’Abbazia di San Mercuriale. Nell’angolo opposto all’edificio sacro stavano il Palazzo del Podestà e il Palazzo del Comune e della Signoria, fatto ampliare da Cecco III e Pino III degli Ordelaffi sul nucleo originario di un edificio risalente all’incirca all’anno Mille. La Piazza Grande era dominata da due alte torri contrapposte a rappresentare il potere politico e quello religioso. Sul lato ovest, dietro al Palazzo del Comune e della Signoria, stava la torre del popolo e sul lato est il campanile, in stile lombardo, costruito nel XII secolo a fianco della chiesa di San Mercuriale.
Tra le numerose chiese della città San Mercuriale era la più importante ed era tenuta dai monaci della congregazione dei vallombrosani. Sorgeva nell’antico Campo dell’abate, sull’area che tra il IV e il V secolo era occupata dalla pieve di Santo Stefano.
Nel lato sud est della piazza sorgeva la Crocetta, in ricordo del luogo in cui i ghibellini forlivesi avevano sepolto le vittime del “sanguinoso mucchio”, ovvero i soldati francesi comandati da Giovanni d’Appia, sterminati nel 1282 dai forlivesi comandati da Guido da Montefeltro. Nei pressi della Crocetta si fermava ogni giorno il trombetta che da un piedistallo richiamava i cittadini perché lo ascoltassero leggere gli editti e i proclami dei signori, come anche le notizie più importanti.
Nel cuore della città medievale, sulle fondamenta dell’antica pieve di Forlì, sorgeva la cattedrale di Santa Croce con il suo campanile. Dopo l’anno Mille, la pieve era stata elevata a duomo della diocesi forlivese, dopo un lungo contrasto di potere con l’abate di San Mercuriale, in cui aveva avuto il sopravvento l’autorità del vescovo.
Le maggiori altre chiese della città erano: San Girolamo, oggi San Biagio, che custodiva affreschi dei più famosi pittori forlivesi; San Francesco Grande, dove venivano sepolti i signori della città e i personaggi illustri; San Domenico, sede dell’ordine dei Domenicani.
Quando, nel 1212, il Campo dell’abate venne donato alla comunità si trasformò nel tempo in Piazza Grande che crebbe progressivamente di importanza nella vita della città rispetto alla piazza che sorgeva di fronte a Santa Croce. Tra le due chiese si estendeva il Borgo Grande, luogo del commercio e meta degli incontri cittadini. Inoltre, come accade tuttora, nei giorni di mercato in piazza affluivano dal circondario mercanti ambulanti e contadini per vendere i loro prodotti e le loro merci.
Intorno alla piazza e nel Borgo Grande si estendeva la zona delle botteghe, “molto ben fornite di mercanzie et de panni de più colori”, come scriveva il cronista dell’epoca Leone Cobelli, mentre gli artigiani avevano concentrato i loro piccoli opifici lungo i canali della città.
La piazza era anche il luogo dove i predicatori riunivano la folla o dove si esibivano gli artisti di strada. In piazza ci si sposava, si festeggiava il battesimo di un nuovo nato o si salutava la dipartita di un amico o di un parente defunto. Vi si trattavano gli affari, si scambiavano pareri politici, si complottava e si contrattava. In piazza si teneva la festa delle maschere a carnevale, con musiche e canti, si svolgevano i tornei e le giostre equestri e, il 30 aprile, festa di San Mercuriale, si disputava il palio con grandi festeggiamenti ed esposizione di stendardi e gonfaloni delle contrade.
Nell’atto di prendere possesso della città, il nuovo Signore faceva tre giri della Piazza Grande a cavallo, davanti alla folla che lo acclamava a gran voce. Tutte le processioni religiose che partivano dalle varie chiese per portare in giro per la città le statue dei santi o le reliquie, facevano un passaggio dalla piazza.
Tuttavia la piazza era anche il «laco di sangue… per li molti homini li quali ‘an sparso sangue, e molti decapitati», come annota il Cobelli. Era il luogo della gogna, della forca, del ceppo e della mannaia e vi si svolgevano pubblicamente le esecuzioni capitali, in modo tale che la visione della pena inflitta al condannato servisse da monito per malintenzionati e non.
Il governo della città era esercitato da un signore, che riuniva in sé tutti i poteri ed era assistito da un auditore. C’erano poi il Consiglio dei Quaranta che esercitava il potere amministrativo, e un governatore e un podestà, che in via congiunta esercitavano il potere esecutivo e giuridico.
Molto attive in città erano alcune comunità laiche, votate alla preghiera e alle opere di bene. Si trattava dei cosiddetti Battuti, che si dividevano in neri, bianchi, rossi, celestini, verdi e bigi. Tra questi i più tristemente noti erano i Battuti neri, che si occupavano di ricomporre e seppellire i cadaveri dei giustiziati e degli assassinati, ma anche dei poveri, degli indigenti, dei malati e degli abbandonati.
Questo era il quadro generale della Forlì di fine Quattrocento in cui, nel 1484, dopo la morte di papa Sisto IV, giunsero stabilmente i Riario Sforza.